L’Associazione di Comunità Mastro Pilastro, nasce da un progetto voluto dal Comune, con l’intenzione di farsi carico, anche localmente, di fattori quali la vulnerabilità sociale, economica e culturale.
È stata costituita l’8 marzo dello scorso anno e conta oggi, 44 soci di cui 18 attivi.
Sebbene abbia la forma giuridica di un’Associazione di Promozione Sociale, contiene nel suo statuto elementi che spingono verso un’innovazione relazionale e di rapporti tra i maggiori Player del Pilastro e Distretto Nord-Est, rispetto alla presa in carico responsabile del Bene e dei Beni Comuni del Territorio.
Tali beni comuni sono sia materiali, luoghi e mete, che immateriali, lavoro dignitoso, facilitazione e accompagnamento delle persone tutte, e delle più fragili in particolare, nei momenti cruciali e/o di transizione della vita, quali, l’infanzia, l’adolescenza, l’età giovane adulta, il divenire genitori, il consolidamento professionale, il ritiro dalla professione, la senescenza.
Fine ultimo: provare a garantire un benessere maggiormente distribuito tra gli abitanti di un territorio che, scambiando beni relazionali e lavorativi in filiera-corta, riescono a mettere in moto sinergie, che restituiscono “occupabilità” e “capacità di sostenersi” a chi è in età di poterlo fare, ma svantaggiato per ragioni quali, la bassa scolarità, la povertà educativa, la povertà economica, la scarsa digitalizzazione ed altro, venendo coinvolto nella fornitura di servizi a “prezzi equi” a chi ne ha bisogno ed in percorsi di formazione e/o ri-formazione altamente focalizzati e specifici.
Abitanti di “una periferia collaborativa e resiliente” che scambiano su base professionale e/o volontaria, capacità, competenze, relazioni, reciprocando “alcuni verso altri”, ciò di cui hanno usufruito, che hanno ricevuto o semplicemente hanno, consentendo la capacitazione e lo sviluppo dignitoso di questi altri, che a loro volta lo consentiranno ad altri ancora.
Tale Associazione è in relazione con l’Agenzia di Sviluppo del Pilastro Distretto Nord-Est, che anche si è costituita in forma innovativa, includendo partner istituzionali, Comune e Quartiere, accademici, Università d’Agraria, di abitare sociale, Acer, finanziari, Emilbanca e Unipolis, imprenditoriali Caab, Parco Meraville, Romagnoli SpA e Granarolo, oltre che Associati in Partecipazione, come la stessa Mastro Pilastro, Circolo la Fattoria, CDH ed altri della co-operazione sociale e della ricerca in energia e fonti rinnovabili, per giocare, ad un secondo livello, la stessa partita di relazione: insistiamo su un territorio, da quello traiamo frutti per la nostra impresa, al suo sviluppo e alla sua sostenibilità contribuiamo, reciprocando.
Fino a qui gli intenti.
Ritornando a Mastro Pilastro, nella realtà applicativa, sebbene io sia convinta che, per i suoi cardini valoriali: Outreach, Empowerment e centralità dell’Economia Solidale e Mutualistica, rappresenti il futuro possibile e capacitante per una periferia come la nostra, si è confrontata e si confronta con vincoli grandi e piccoli, che l’hanno frenata nel suo dispiegarsi.
Primo: siamo una periferia con 45 etnie diverse e non sempre riusciamo, a torto e a ragione, a guardare all’altro con il livello di fiducia ed affidamento necessario per costruire comunità e collaborazione.
Il diverso ed altro da me, incute timore e sospetto, più che curiosità e voglia di condivisione.
Pregiudizio multi-dimensionale, nessuna etnia e nessuna cultura ne è esente.
Come mi sono ritrovata molte volte a dire è un pregiudizio trasversale, longitudinale, latitudinale, che colpisce ugualmente tutti noi, ora essendone oggetto, ora agenti.
Secondo: gli adempimenti amministrativi, burocratici e formali che spesso sono più d’ostacolo che in favore di una co-progettazione e di una vera assegnazione di beni comuni alla Comunità e alle persone che potrebbero farsi carico della loro cura, lavorandovi.
Terzo: il mercato di riferimento dei lavori più usuranti e che richiedono minor o bassa specializzazione. Spesso ci si confronta con organizzazioni che utilizzano impropriamente forme giuridiche quali la cooperativa e l’associazione, per ridurre i propri costi, riversando solo sui propri collaboratori il rischio d’impresa, a salari schiavizzanti.
Voler costruire per 11 ragazzi tra i 18-30 anni un’impresa sociale di comunità, a prezzi sostenibili e salari sostenibili si scontra con la nostra consolidata abitudine di attribuire solo un prezzo e non un valore alla prestazione resa.
Quarto: una povertà molto forte già esistente in larghe fasce della popolazione del rione, con livelli d’indebitamento insostenibili senza almeno la percezione, da parte di uno o due membri della famiglia, di una retribuzione dignitosa ed adeguata.
Persone che sono già passate per numerose borse lavoro e tirocini, senza approdare ad una professione, non per loro inettitudine, ma perché, dico io, non esistendo relazione di professionalità e comunità d’intento, vengono spesso sostituiti con altri bisognosi, che all’azienda non costano, riversando così sulla società tutta, un costo tipicamente imprenditoriale.
Quinto: l’assenza di quelle relazioni che consentono di by-passare sistemi di reclutamento nei quali si è solo un numero e si è scartati attraverso un filtro, spesso solo informatico, messo, per restringere l’ondata di offerta lavorativa.
E non mi riferisco alla raccomandazione, ma alla creazione di una relazione fisica, in un territorio locale si può, tra domanda ed offerta di lavoro, che consenta l’incontro tra impresa e lavoratori, per verificarne l’idoneità e l’opportunità di lavorare insieme, oltre i filtri socio-demografici e d’istruzione, che attuano una mera riduzione del numero di candidature di cui fare lo screening.
Sesto: la valutazione, quantomeno approssimativa, dei tempi necessari a creare tali circoli virtuosi ed il desiderio reale, di chi può nella Comunità, di mettere in gioco risorse economiche e di competenza per altri che sono meno istruiti, più fragili, forse anche meno socializzati al lavoro in prima battuta e quindi più scostanti, ribelli ed impreparati, per restituire un po’ di quello che da un territorio traggono, come proprio benessere organizzativo ed individuale.
Mi fermo qui, dicendovi che nonostante i vincoli presentati, io credo che una società che si rende civilmente responsabile, possa al Pilastro e Distretto Nord-Est iniziare a prototipare “i processi” che garantiscono la transizione verso modelli realmente partecipati, dove competenze complesse ed expertise specialistiche viaggiano non più top-down (dall’alto al basso) o down-top (dal basso all’alto), bensì circolarmente e sinergicamente.
La Riforma del Terzo Settore assiste molto in questa direzione.
Concludo riportando alcune frasi, che nel corso di formazione al quale ho partecipato, continuano a riecheggiare nella mia mente:
- Per dare vita ad un’Impresa di Comunità è necessaria una minoranza profetica di persone.
- Un’impresa di Comunità agisce su più livelli. E’ anche un policy maker, cioè si connota per la sua azione politica e sociale.
- Un’impresa di Comunitàè un ibrido amministrativo, dove la Comunità si fa Stato nelle relazioni con le Istituzionied Impresanella creazione di unutile da attività professionali, cheviene riutilizzato ereinvestito per laComunità stessa, garantendo servizi ai suoi abitanti tutti, soci o non soci.